Leggere Barthes per capire il Var

In Miti d’oggi Roland Barthes mostra un metodo per decifrare il mondo che è rimasto contemporaneo

Il calcio avvolge le nostre vite. Non il calcio inteso come ventidue uomini in pantaloncini che rincorrono un pallone, ma tutto quello che gli è stato costruito intorno: stipendi milionari, contratti di sponsorizzazione, pagine di quotidiani (sportivi e non) piene di elucubrazioni sul 4–4–2 o il 4–3–3, sul calciomercato anche mesi prima della sua apertura estiva, sulla nuova fiamma di Cristiano Ronaldo. Il risultato sportivo è sempre meno il fine e sempre più un mezzo attraverso cui parlare di prospettive societarie e panchine traballanti. Fino alle recenti polemiche sul Var, concretizzazione mitologica dell’altrettanto mitologica tecnologia in campo. Insomma, usando le parole di Roland Barthes, il calcio ha da tempo smesso di essere uno sport e si è trasformato in spettacolo. Nota bene: Barthes si riferiva al catch (il wrestling) e ne discuteva oltre 60 anni fa.

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Roland Barthes fotografato il 20 gennaio 1979, a Parigi, da Ulf Andersen

La modernità di Miti d’oggi sta proprio nel fatto che i miti di cui parla sono sempre quelli: sono cambiate le parti superficiali dei segni, le loro forme, ma il meccanismo che li genera è sempre lo stesso. Lo sport, il cinema, la pubblicità rimangono ancora oggi le principali forme di produzione mitologica, esattamente come nel 1957. Allora, Barthes portava fuori dall’università la semiologia e la adoperava per analizzare, decostruire e demistificare i fenomeni della cultura di massa. Così, ha dimostrato che si può leggere il nostro mondo attraverso l’analisi semiologica. Ecco il motivo per cui lo “struzzo” Einaudi Miti d’oggi (243 pagine, traduzione Lidia Lonzi) viene ancora comprato e letto: pur avendo come oggetto la Francia degli anni Cinquanta, è un libro a-storico; i 53 scritti (+1 teorico) sono qui raccolti in funzione di un metodo, subordinati alla sua definizione. “Il loro legame è di insistenza, di ripetizione”, scrive Barthes nella Premessa, non hanno uno svolgimento organico. Servono a mostrare una postura, quella del mitologo, necessaria per svelare le contraddizione dei miti della vita quotidiana. L’ultimo capitolo, Il mito, oggi, è quello deputato a teorizzare la strategia, mentre gli altri non fanno altro che fornire esempi concreti di come applicarla. Miti d’oggi non è un libro sulla Francia postbellica, ma la divulgazione di una tecnica di demistificazione valida per tutte le epoche. Non a caso il titolo originale è Mythologies, semplicemente Miti, senza alcun riferimento temporale. La sua contemporaneità è nel mezzo, non nell’oggetto. Ma da questo bisogna partire, se si vuole arrivare a una piena comprensione del gesto barthesiano di demistificazione.

Miti d’oggi, Roland Barthes, Einaudi, 1974
Miti d’oggi, Roland Barthes, Einaudi, 1974

Lo sport, il cinema e la pubblicità, la letteratura, la politica e il cibo sono le categorie dei miti analizzati da Barthes. Ma anche la fotografia — il testo a essa dedicato è un piccolo seme da cui germoglierà il celebre La camera chiara del 1980 — e il teatro — in Racine è Racine viene contestata la tautologia di un’attrice sul drammaturgo, ma anche questo scritto anticipa un saggio, Sur Racine, pubblicato nel 1960. Sono tutti articoli di giornale, “scritti mese per mese nel corso di due anni, dal 1954 al 1956, dietro il richiamo dell’attualità”, si legge ancora nella Premessa. Alimentano rubriche che il semiologo tiene su diversi quotidiani e riviste francesi, un po’ come le Bustine di Minerva che Umberto Eco ha scritto dal 1985 al 2006 sull’Espresso. Non pretendono l’esaustività (come abbiamo visto, alcuni verranno ripresi e ampliati), ma passano in rassegna tutte le declinazioni della cultura di massa. Dietro a ogni angolo della realtà si nascondono oggetti sacralizzati e fenomeni mitizzati. Barthes si pone come un osservatore che, con il piglio del linguista, li analizza uno a uno e li decostruisce fino ai loro elementi fondanti. L’analisi semiologica svela la costruzione del mito, la descrizione narrativa lo distrugge. “La semiologia — spiega nell’ultimo capitolo — ci ha insegnato che il mito ha il compito di istituire un’intenzione storica come natura, una contingenza come eternità”, sradica, cioè, un fatto dalla sua essenza contingente e lo trasforma in un mito senza tempo.

È la merce innalzata a valore assoluto, o la Citroën Ds che diventa “l’equivalente abbastanza esatto delle grandi cattedrali gotiche”. È il Tour de France come “grande epopea”, con i nomi dei corridori che “sembrano nella maggior parte venire da un’età etnica molto antica”. Ed è, ai giorni nostri, Lebron James, soprannominato fin da giovane “il Prescelto”, con una sfumatura messianica che esce dai palazzetti dell’Nba. Ma non è solo lo sport a poter subire una decostruzione semiologica: il mito tutto contemporaneo della fresca birra estiva trova il suo antenato barthesiano nella bontà del vino francese (Il vino e il latte), la descrizione delle fotografie dei candidati alle elezioni (Fotogenia elettorale) anticipa di oltre mezzo secolo le ospitate televisive dei politici. Mentre il discorso sui matrimoni di inizio anni Cinquanta (Coniugali) potrebbe essere recuperato per intero nel 2018, per analizzare le nozze reali tra il principe Harry e Meghan Markle o quelle social tra Fedez e Chiara Ferragni.

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